La prima edizione del Festival di Pubblica utilità ha un prologo cinematografico di grande prestigio in una serata promossa dalla Fondazione Cinemovel al Cinema Centrale di Imola, il 19 ottobre, con la proiezione del docu-film “Human Flow”, “Flusso umano” del regista dissidente cinese Ai Weiwei, opera ambiziosa, visionaria e di denuncia, dedicata alle grandi migrazioni di questa nostra epoca.
Il film racconta i rifugiati che cercano di entrare in Europa e il loro flusso – visto e documentato dal vero e con gli occhi dell’artista – si fa opera d’ arte attraverso un viaggio tra i campi e le tendopoli dei migranti, costringendo lo spettatore a riflettere sul tema della dignità umana. Weiei raccoglie e porta sullo schermo le testimonianze drammatiche dei protagonisti, ma nel film non mancano momenti di leggerezza e qualche tocco vicino alla commedia. Per girarlo, il regista è stato in 23 paesi, incontrando migranti da tutto il mondo e seguendoli attraverso strade, confini, mari, in un ambizioso documentario di 140 minuti. L’identità delle persone emerge dietro l’etichetta del rifugiato. Il regista, per raccontare questa storia, usa la macchina da presa soprattutto per fare delle grandi e spettacolari panoramiche. Le immagini sono bellissime, colpiscono il cuore dello spettatore. Le troupe che hanno lavorato alle riprese sono state una ventina e numerose riprese vengono dal drone e dalla steadycam. Il budget di questo lavoro si progressivamente gonfiato fino a diventare “incredibile” per stessa ammissione del regista.
Non è un caso se Ai Weiwei sia interessato ai profughi. In qualche misura lo è anche lui. L’l’artista cinese è apertamente critico con il governo del suo Paese, ambasciatore di Amnesty International, negli anni Ottanta emigrò senza soldi e senza conoscere la lingua a New York, qui è riuscito a far sentire la sua voce di artista ed è qui che la sua fama si è consolidata. Tornato in Cina nel 1993 per assistere il padre malato, è stato considerato un dissidente dalle autorità di Pechino, minacciato con un’accusa di evasione fiscale, torturato fisicamente, psicologicamente e confinato per 81 giorni in una cella angusta, sorvegliato a vista 24 ore su 24. Finalmente libero, anche grazie alla mobilitazione di intellettuali e politici del mondo intero, ha riottenuto il passaporto solo nel 2015.
Figlio di Ai Qing, un poeta esiliato perché considerato un nemico del popolo, oggi a 60 anni è uno dei più celebri artisti contemporanei che intendono l’arte come sperimentazione infinita in diversi ambiti linguistici e vive a Berlino, la città che, insieme con Vienna, ha ospitato la sua installazione intitolata “Law of the Journey”: migliaia di giubbotti di salvataggio sui muri dei palazzi per ricordare l’emergenza dei migranti. Altre installazioni di denuncia civile sono state allestite o sono in corso di realizzazione negli Stati Uniti (esemplare l’installazione concepita nel Park Avenue Armory di New York insieme con gli architetti Herzog & De Muron), a Gerusalemme, a Istanbul, Londra, ed a Firenze, dove le facciate di Palazzo Strozzi sono state coperte nei mesi scorsi di simbolici gommoni arancioni, incastonati nelle finestre a bifora.
Essere artista per Ai Weiwei si configura soprattutto come pratica militante: significa rendersi testimoni del nostro tempo e aiutare il pubblico a comprendere le contraddizioni del presente. Da queste premesse è nato Human Flow, il film che è stato in concorso al festival di Venezia di quest’anno. Dai mari ai campi, dalle chiusure dei confini di Macedonia, Ungheria e Serbia, agli uomini e donne intrappolati a Gaza. Dalla conta dei morti in Turchia fino alla nostra Lampedusa e al border tra Usa e Messico. Il film è un vero e proprio kolossal e il regista entra in scena e documenta guerra, carestie, malattie, cambiamenti climatici, crisi dei rifugiati, invitando alla ricoperta di valori come tolleranza, compassione, fiducia. E ha un obiettivo: denunciare l’emergenza contemporanea che riguarda 65 milioni di persone (dati UNHCR) costrette per qualche ragione a lasciare la propria terra.
Il film, ambientato nei principali Paesi sconvolti dalle grandi migrazioni tra cui Afghanistan, Bangladesh, Ungheria, Iraq, Israele, Giordania, Kenya, Grecia, Macedonia, Malesia, Messico, Pakistan, Palestina, Serbia, Siria, Turchia e naturalmente l’Europa e in oltre 40 campi di raccolta e tendopoli, ha impegnato il regista e coproduttore per quasi due anni. La quantità dei luoghi visitati consegna l’idea delle dimensioni del fenomeno.
Ai Weiwei è andato in mezzo ai migranti, ha filmato le loro condizioni di vita, ascoltato le loro voci, si è messo dietro la macchina da presa per cercare di smuovere le coscienze. Ha cercato anche di mostrare come le migrazioni siano parte della condizione naturale dello sviluppo umano. In questo processo, l’empatia e la tolleranza sono l’elemento più importante. Ci sono democrazie stabili e sicure in molte parti del mondo ed è naturale che chi vive in difficoltà cerca di spostarsi in luoghi migliori dove crescere i propri figli. Spesso l’immagine che ci viene consegnata è che con queste persone siamo più in pericolo. Il regista ci mostra queste persone per come sono: gente piena di umanità. In gioco è la dignità dell’essere umano, da difendere ovunque.