Leggere in due ore tutta Wikipedia e impararla a memoria. Mettere in ordine miliardi di documenti sparpagliati. Capire il senso di una montagna di testi scritti e registrati al computer. Ci pensa «Cogito». Letteralmente. È il programma che simula l’abilità umana di comprendere a fondo il linguaggio: è il prodotto della Expert System, una piccola multinazionale di Modena. Siamo nel mondo dell’intelligenza artificiale. Chi si occupi del futuro del lavoro può partire da qui.

Dove si fa l’intelligenza artificiale si possono a cercare risposte non irragionevoli alle domande che questa tecnologia non cessa di suscitare: sui posti di lavoro che potrebbe eliminare o sulle opportunità che potrebbe offrire. Una drammatizzazione del tema è diffusa. Hanno contribuito Carl Frey e Michael Osborne, di Oxford, che nel 2013 ipotizzavano che l’intelligenza artificiale avrebbe sostituito il 47% dei posti di lavoro americani nei prossimi dieci o venti anni. Ma i fatti potrebbero andare diversamente, se prevalesse un approccio orientato piuttosto a sviluppare la produttività. «Le ricerche Accenture in dodici settori economici rivelano che l’intelligenza artificiale potrebbe raddoppiare i tassi annuali di crescita economica nel 2035, modificando la natura del lavoro e creando una nuova relazione fra l’uomo e la macchina. Si stima che l’impatto delle tecnologie di intelligenza artificiale sul lavoro porterà un aumento della produttività del lavoro fino al 40%».

 

Sottovalutare una tecnologia è un errore quanto sopravvalutarla: per interpretarla correttamente occorre senso storico. Come ricorda lo scrittore Bruce Sterling, una buona regola spannometrica per guardare dieci anni avanti è ricordare trent’anni indietro. Già allora si prevedeva il prossimo avvento dirompente dell’intelligenza artificiale che però era sempre in ritardo. Stuart Armstrong, ricercatore al Future of Humanity Institute di Oxford ha ricostruito la dinamica storica delle previsioni sbagliate in materia e dimostrato che anche oggi vale la pena di diffidare delle visioni troppo sicure. Certo, nel secolo scorso i programmi per l’intelligenza artificiale erano ambiziosi ma mancavano le informazioni sulle quali esercitarla. Da allora mezza umanità ha avuto accesso al web e ha reso possibile la registrazione di una quantità di dati senza precedenti. Su questa base anche programmi relativamente semplici di machine learning sembrano poter ottenere risultati importanti. Sicché dopo i cambiamenti alimentati dal successo di internet, oggi ci si trova di fronte a una nuova ondata di possibili innovazioni. Che andranno interpretate bene. Chi lo farà sarà avvantaggiato. Gli altri resteranno indietro.

Coltivare la ragionevolezza
Certo, è meglio coltivare una buona dose di ragionevolezza. Si tende spesso a parlare di intelligenza artificiale in termini che starebbero meglio nei romanzi di fantascienza. Ed è comprensibile che gli umani proiettino sull’intelligenza artificiale l’aspettativa che evolva come il pensiero umano. In realtà ne è una simulazione. Si basa su reti neurali e algoritmi che servono a confrontare grandi quantità di dati per estrarne conoscenza e persino operare decisioni, all’interno di certe logiche codificate: il che avviene in finanza, quotidianamente, ma sempre più spesso si usa nella cybersicurezza, nel servizio ai clienti, nella gestione degli archivi e in molte altre attività. Certe performance colpiscono la fantasia: come quando Deep Mind, poi comprata da Google, ha fatto giocare il suo software a Space Invaders scoprendo che in una ventina di partite imparava tanto bene da diventare invincibile. Una bella riuscita che ha ricordato le vittorie dell’Ibm a scacchi con Deep Blue e a Jeopardy con Watson. Ma per il fisico Stephen Hawking questa tecnologia non è un gioco e si tradurrà nella più grande opportunità o nella peggiore minaccia per l’umanità: non possiamo prevedere che cosa faremo quando le nostre menti saranno amplificate da computer davvero intelligenti. E se è così difficile prevedere le conseguenze dell’intelligenza artificiale in generale, non ha senso essere troppo sicuri di quello che succederà allo specifico del lavoro.

Ma un fatto è certo: l’intelligenza artificiale non evolve autonomamente dagli umani, è il frutto dei progetti degli umani.

L’esperienza della Expert System è istruttiva. Oggi, la sua tecnologia Cogito serve per analizzare enormi quantità di informazioni ed estrarne significato e valore. «Ci vorrà tempo, ma impareremo a trattare le informazioni qualitative con il computer come abbiamo imparato a trattare i numeri», dice Stefano Spaggiari, amministratore delegato. Con i soci, ha fondato l’azienda nel 1990 e per anni ha finanziato l’innovazione con il fatturato, lavorando per i clienti di giorno e sviluppando di notte il prodotto: una mappa completa del linguaggio, una rete semantica che contiene milioni di definizioni e relazioni tra concetti, il Sensigrafo, che – qui sta il punto – è stata insegnata al computer. «I computer non imparano da soli a riconoscere i concetti con accuratezza se prima non sono “andati a scuola”. Questa è la nostra idea. Noi abbiamo impiegato 400 anni-uomo di lavoro per insegnare alle macchine la grammatica e la semantica». E così a quanto pare ora Cogito fa meno errori delle macchine dei concorrenti che cercano di imparare tutto da zero per “prova ed errore”. E non per niente Expert System batte avversari più grandi quando al cliente serve grande precisione linguistica, come è emerso in un caso riguardante la cybersicurezza divenuto noto grazie al servizio per la trasparenza dei risultati delle gare pubbliche dell’Agid. L’azienda investe 5 milioni all’anno in ricerca e sviluppo, su 22 milioni di fatturato. Tra le 230 persone che lavorano alla Expert System ci sono 160 tecnici di cui 45 “knowledge engineer”. Gli altri sono architetti del software, ingegneri programmatori, data scientist e product manager. In fin dei conti i tecnici della Expert System, dal 1990 ad oggi, hanno cambiato mestiere molte volte ma hanno coltivato un lavoro, cioè un progetto di fondo: insegnare il linguaggio umano ai computer. Questi sono allievi che danno soddisfazione, perché non dimenticano le lezioni: ma la qualità di quello che imparano dipende dalla qualità dei loro maestri.

Il capitale umano è dunque essenziale. Lo testimonia Giulia Beccarin, imprenditrice con una notevole esperienza internazionale, co-fondatrice a Salò di Mipu, acceleratore di imprese a base di intelligenza artificiale che in circa cinque anni è arrivato a una cinquantina di dipendenti e 4 milioni di fatturato. Tra le attività, la produzione per l’Italia di una soluzione per la manutenzione predittiva delle macchine industriali fondata anche sul machine learning. «E alla Mipu il 10% del fatturato annuo è impiegato per corsi di formazione al personale». Le macchine sono il risultato delle persone.

È una scoperta di non poco conto. Secondo le ricerche di Gartner, queste tecnologie avanzano sul mercato: il rischio per il loro sviluppo è che le aspettative siano esagerate. Ma se saranno prese per quello che sono, avvieranno una nuova accelerazione digitale. I minichip che servono al riconoscimento delle immagini per le automobili a guida autonoma, sviluppati a Parma dalla VisLab diretta da Alberto Broggi e acquisita dall’americana Ambarella, sono in pieno progresso. E nei software dell’ImageLab guidato da Rita Cucchiara all’Università di Modena e Reggio Emilia, il deep learningserve a dare ai computer la capacità di capire quello che vedono con risultati tanto soddisfacenti che Facebook ha scelto di premiare il laboratorio. Anche qui la tecnologia va aiutata a imparare. Come mostra un’inchiesta del Financial Times, oggi sono al lavoro armate di persone pagate per etichettare le foto online, per insegnare ai computer a riconoscerne i contenuti.

Oggi c’è domanda per questo mestiere, ma non sappiamo se ci sarà domani. I lavori più stabili saranno collegati a più elevate capacità progettuali. In ogni caso di lavoro ce ne sarà bisogno. Lo stesso Rob High, chief technology officer di Ibm che si occupa di Watson, dice che l’intelligenza artificiale aumenterà le capacità degli umani analizzando per loro molti dati, immagini e informazioni, ma è ben lungi dal poterli sostituire. Come scrivono Richard e Daniel Susskind in The future of professions, questo può trasformare il lavoro in diversi modi, tutti da approfondire. Ma l’impressione è che a uscire dal mercato più velocemente saranno i professionisti che non impareranno a comprendere queste tecnologie: chi le conoscerà sarà più produttivo. Come dicono all’Ocse, solo un 10% – non un 47% – dei posti di lavoro sparirà: ma un 30-40%, semplicemente, cambierà. L’intelligenza delle macchine sarà definita dall’intelligenza delle persone che le progettano e le producono. E le usano. Questo modificherà il lavoro, dalla gestione aziendale alla fabbrica, dalla sanità alla scuola. Ma il punto di partenza è chiaro: le macchine funzionano sulla base di programmi scritti da umani e operano in contesti definiti da scelte umane. Il futuro non è un destino ma un progetto.