Parchi gestiti da famiglie, abitare condiviso, servizi sanitari dal basso: l’Italia è ricca di esperienze innovative nella gestione dei beni comuni. E ora c’è una Festival che le mette in scena, il 20 ottobre a Imola.

Infermieri di comunità, chiamati a prendersi cura degli anziani che vivono sulle montagne o nelle campagne piemontesi, senza dover per forza passare gli ultimi anni della loro vita in case di riposo. Onlus (tedesche) che abilitano (in Italia) nuovi modelli di accoglienza domestica e diffusa dei rifugiati politici. Semplici cittadini o associazioni che a Milano sperimentano modelli di abitare condiviso e sociale che aiutano a superare l’anomia e la solitudine dell’abitare metropolitano.

Chiamatele come volete: iniziative di pubblica utilità, innovazione sociale, mutualismo, sussidiarietà, dietro c’è la medesima idea: che l’organizzazione, la messa a disposizione, la cura dei beni comuni non sono più monopolio dell’attore pubblico, bensì (anche) di un’iniziativa complementare, spontanea di privati cittadini. Una consapevolezza che l’Italia, patria di iniziative analoghe già nell’ottocento – dalle casse rurali, alle associazioni di mutuo soccorso, dalle cooperative di produzione e lavoro alle stesse scuole -, ha già da tempo riscoperto, con iniziative pulviscolari e regolamenti comunali d’avanguardia, tornando a essere una delle punte più avanzate di un’analoga tendenza a livello globale. Prova di questa rinnovata iniziativa è la sua prima rappresentazione pubblica, il Festival di Pubblica Utilità che si terrà il 20 di ottobre a Imola, organizzato dal Comune, da Fondazione Symbola e da Ipsos, con il contributo “pesante” di un main sponsor come il Gruppo Hera, che con la fornitura di beni di pubblica utilità ha a che fare ogni giorno.

Operazione di retroguardia? Prova di un arretramento della politica che non ha più soldi? No, secondo Ermete Realacci, uno degli ideatori della kermesse, che avrà tra i suoi relatori, tra gli altri, i ministri Lotti e Madia, la presidente Rai Monica Maggioni, il sindaco di Bari Antonio Decaro, il presidente della Regione Emilia – Romagna Stefano Bonaccini e il designer Mario Cucinella: «Oggi gli obiettivi di pubblica utilità possono essere perseguiti in modo molto più efficace con un coinvolgimento virtuoso della società civile e con una politica che si fa guida, levatrice e maieuta in questo processo», spiega.

La chiave, insomma, è il processo, non il servizio. Perché è dal processo che si costruisce il senso di una nuova società che ruota attorno al bene di pubblica utilità. E questi nuovi processi, in alcuni casi, sono talmente evidenti che nemmeno ci accorgiamo di loro

Allo stesso modo la pensa il sindaco di Imola Daniele Manca, uno dei comuni che più ha fatto per andare nella direzione della gestione condivisa dei beni comuni: «Quando si eroga un servizio, si pulisce una città, si eroga acqua, si accende la luce, sono diventati diritti acquisiti, non c’è nemmeno riflessione – riflette – Ma i beni di pubblica utilità non sono diritti acquisiti. Ed è nella gestione e nella cura condivisa che torniamo ad appropriarcene. Questa è la grande questione del futuro». Perché, aggiunge, «Quando il pubblico privatizza, cede futuro ad altri, non importa chi essi siano. Lo cede e basta»

La chiave, insomma, è il processo, non il servizio. Perché è dal processo che si costruisce il senso di una nuova società che ruota attorno al bene di pubblica utilità. E questi nuovi processi, in alcuni casi, sono talmente evidenti che nemmeno ci accorgiamo di loro: basti pensare alla raccolta differenziata, che altro non è che un meccanismo di collaborazione tra pubblico e privato nella gestione dei rifiuti. O al contributo che offre la cooperazione sociale, che anziché assistere le persone, promuove lavori socialmente utili e utilità sociale. E c’è di più ovviamente. Ci sono i regolamenti dei beni comuni, ormai fatti propri da centinaia di comuni in Italia, la grande vera innovazione di questi anni: «Noi abbiamo cittadini che hanno firmato con noi un contratto e che lavorano per mantenere pulita la comunità – spiega ancora Manca -. Da noi i cittadini si occupano delle loro strade e dei loro parchi».

Non è nemmeno solo protagonismo civico, o volontariato. Dietro c’è un preciso disegno di società, quello che Ermete Realacci legge già nella nostra costituzione, «che all’art. 3 parla di “compito della Repubblica” – spiega -. La Repubblica, non è infatti solo lo Stato: sono anche tutti i cittadini. È compito dei cittadini, quindi, prima ancora che dell’amministrazione pubblica prendersi cura della “pubblica utilità”». Una presa in cura che, in fondo, definisce la nostra identità di cittadini, «perché quando un cittadino si sente orgoglioso di appartenere a una comunità, da una mano – spiega Manca -ed è lì che c’è autodeterminazione, non quando si voltano le spalle a chi ha bisogno». Un’identità che è una chiave anche per la competitività futura del nostro Paese e la prova è «un sistema metropolitano come quello bolognese attrae investimenti e genera lavoro perché offre qualità della vita, coesione, assenza di conflittualità». In fondo è semplice come la differenza che c’è tra dire «faccio io» e dire «prima io». A ben vedere, il bivio che abbiamo di fronte è tutto qua.